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Recensioni: Les amants reguliers – Philippe Garrel

20/08/2009

(In ascolto: Dark Night of the Soul – Danger Mouse and Sparklehorse feat. Vic Chesnutt)

Pubblicato su Lankelot, agosto 2009.

«Quando ho detto alla televisione e alla radio che il mio film, Il testamento di Orfeo, “non avrebbe avuto né capo né coda, ma un’anima”, io scherzavo senza scherzare. Perché, in effetti, io mi meraviglio – in un’epoca in cui i pittori hanno sacrificato il soggetto all’arte del dipingere e annullato il modello o pretesto per dipingere – che i registi, assillati dai produttori che credono di conoscere il pubblico e sono rimasti al bambino che vuole che gli si racconti una storia, esigano un “soggetto” e un pretesto mentre il modo di dire, di mostrare le cose, e di ammobiliare lo schermo è mille volte più importante di quello che vi si racconta».

(J. Cocteau, Tel Cinèma, Edizioni Il Formichiere, Milano, 1979.)

Parigi, maggio 1968, the times they are a-changin’. Franςois Dervieux (Louis Garrel) è uno dei tanti giovani che partecipano alle proteste per le strade della capitale francese. Ha vent’anni. È un poeta. Durante uno scontro con la polizia riesce a fuggire ad una carica della polizia trovando rifugio sui tetti di un palazzo, dove trascorre il resto della notte. La rivolta è fallita, gli operai interrompono gli scioperi mentre gli studenti si interrogano sulle possibilità della rivoluzione; uno di questi si chiede se è possibile una rivoluzione per il proletariato senza che il proletariato vi prenda parte, e sembra svelarci un interrogativo che forse lo stesso Philippe Garrel aveva nel 1968, quando era lui stesso studente. Interrogativo che interpreto in questa maniera non nasconde una certa dose di sconfitta e fallimento e una forte critica nei confronti di tutto il movimento sessantottino. Messo sotto processo per aver disertato il servizio militare, Franςois si trasferisce nell’appartamento di Antoine, un giovane borghese che ha avuto in eredità un grosso patrimonio, e che gioca a fare la rivoluzione ospitando nel suo appartamento un gruppo di giovani bohémien facendogli anche da mecenate. Durante una festa, Franςois incontra Lilie (Clotilde Hesme) anch’essa giovane artista – una scultrice. Tra i due l’attrazione è istantanea e nelle tre ore di cui è composto il film, diviene amore. Fino a quando Lilie, per realizzare il suo sogno di divenire una scultrice, non si trasferisce a New York al seguito di un artista affermato per cui ha posato come modella e che le promette un futuro prospero.

Questa la trama, ma potremmo tranquillamente farne a meno. Il tempo – il maggio francese – e lo spazio – una Parigi sempre fotogenica nonostante i suoi simboli non entrino mai a far parte dello spazio scenico – sono dei semplici accessori. Il film di Garrel non è un film che parla di ideali. È un film che invece, l’ideale, lo mette in scena. Ed è l’ideale del cinema come arte autonoma, pura.

Garrel non si limita a raccontare, piuttosto descrive, trascrive, opera dietro la macchina da presa con distacco e forse disincanto, senza cadere nella tentazione mitografica del maggio francese. Questa innanzitutto la differenza più grande con The Dreamers di Bernardo Bertolucci, film con il quale è spesso paragonato.

Bravissimi gli attori, capaci di reggere lunghe inquadrature a camera fissa, dove basta il solo movimento degli occhi o delle labbra, a sostituire tutte le parole che non necessitano di essere dette perché costituiscono l’esternazione dei moti dell’animo. Spesso, in queste scene sono dei brevi pezzi di pianoforte alla maniera dei Preludes di Chopin ad accompagnare i movimenti degli attori, fungendo da cassa di risonanza dei loro sentimenti e realizzando un cinema che grazie anche alla fotografia in bianco e nero di William Lubtchansky è più vicino alle suggestioni pittoriche che a quelle propriamente cinematografiche, se il cinema lo si intende (e riduce) a qualcosa fatto esclusivamente di trama e dialoghi. Ed è qui che va anche trovato il debito che Garrel ha nei confronti della Nouvelle Vague e di Godard in particolare, nell’importanza data alla macchina da presa e ai suoi movimenti rispetto alla sceneggiatura, nella ricerca di un cinema puro, alla perenne ricerca della poesia nell’immagine piuttosto che nella parola. Come affermava Jean Cocteau, colui che i giovani registi della Nouvelle Vague ritenevano il proprio padre spirituale, la macchina da presa permette di creare una successione di immagini in movimento tali da dare precedenza alla vena pittorica e grafica a svantaggio della vena drammaturgica. Il cinema, declinato secondo il particolare uso cocteliano (e quindi poi Godardiano), amplifica la pregnanza semantica della poesia grazie alla visualizzazione delle immagini e alla tecnica riproduttiva. Per Cocteau il cinema arrivava ad essere il mezzo migliore per descrivere la necessità poetica di uscire dai confini della sola parola e il cinema di Garrel sembra andare proprio in questa direzione. Interessante a questo punto, è anche la scelta di strutturare il film in capitoli, segno sì della matrice letteraria dell’opera ma nel modo in cui essa realizza il tentativo di compiere non una narrazione di immagini ma una narrazione per immagini. Garrel non narrativizza; quella proiettata sullo schermo è invece il tentativo di creare un’immagine che si narra da sola, autonomamente, senza dover ricorrere all’escamotage dell’immagine onirica o surreale e affondando invece le sue radici nella quotidianità, nella piena tradizione realistica. Questo, a parere di chi scrive, il grande merito artistico del film di Garrel. Il realismo è totale ed avvolge ogni elemento del film. Suono in presa diretta e lunghi silenzi spezzati da dialoghi rubati dalla quotidianità e che raramente mirano alla frase ad effetto, nonostante il protagonista del film sia un poeta e la sua amante, una scultrice. Nessuna artificiosità, se non quella propria della grande arte che ci mostra, facendocelo vivere, il migliore dei mondi possibili.

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Recensioni: L’odio – Mathieu Kassovitz

15/08/2009

(In ascolto: Des Armes – Noir Dèsir)

Pubblicato su Lankelot, agosto 2009.

C’è una capacità che andrebbe sempre riconosciuta al cinema francese, o meglio, all’industria cinematografica francese. Quella di costituire l’unica vera opposizione, l’unico tentativo di resistenza a quella imperante proveniente dall’America. Andrebbe riconosciuta la sua capacità di proporre un’offerta cinematografica a trecentosessanta gradi, che fugge quasi sempre all’appiattimento del cinema di genere, come è invece avvenuto in Italia dopo la fertile stagione neorealista. Stagione così fertile che ha segnato profondamente il modo di fare cinema in Italia, per cui – tranne alcune eccezioni ben isolate (ovviamente Fellini, ma anche Moretti e i più recenti Garrone e Sorrentino) – non si è mai riusciti a superare un modello che non ha saputo rinnovarsi e adattarsi ad un contesto sociale differente da quello in cui il neorealismo era nato. E a questa mancanza di rinnovamento si è aggiunta negli anni l’avanzata di quello standard televisivo che oggi ormai impera in ogni produzione nostrana. A questa regola hanno saputo invece sottrarsi una serie di registi in Francia in grado di proporre un’offerta diversificata, capace di spaziare dalla commedia (Jeunet, Klapish, Veber) al blockbuster (Besson), dal noir moderno (Audiard) al grottesco (Carax e Gondry), passando per l’animazione (Ocelot, Chomet) e il documentario (Jaquet) per non parlare dell’ecletticità di un autore come Patrice Leconte. Il tutto sempre rivendicando la dignità artistica del mezzo cinematografico, quella capacità che Andrè Bazin rivendicava al cinema di “sostituire al nostro sguardo il mondo che desideriamo”.

In questo prolifico filone di talentuosi registi d’oltralpe, parve inserirsi nel 1995 Mathieu Kassovitz con un’opera come La Haine che gli valse il premio per la miglior regia al 48° Festival di Cannes. Un film che lasciava intravedere per l’allora ventottenne Kassovitz una lunga e prolifica carriera. Ma, le opere successive dietro la macchina da presa hanno negli anni smentito clamorosamente tutte le buone promesse fatte nel 1995. Eppure, L’Odio, rimane ancora oggi un’opera dall’indiscutibile valore, estetico e sociale. Un film di denuncia che mostra la propria morale per contrasti, bagnandosi in un mondo amorale, in cui non vale più neanche la legge del più forte, ma quella del puro determinismo. Un film che agisce per simmetrie e per contrasti, come il bianco ed il nero del film, che nulla lascia allo spazio lirico delle immagini. L’estetica alla base del film è più vicina a quella di un autore letterario come Cèline che a quella di un Truffaut. La fotografia di Pierre Aim non estetizza, anzi, i bianchi e i neri rimarcano piuttosto le imperfezioni, ora i tratti ruvidi del profilo di Vincent Cassel ora le spigolosità delle geometrie architettoniche del paesaggio urbano della banlieu, così come i pieni e i vuoti di cui è composto lo stesso tessuto urbano. L’estetizzazione passa invece attraverso il montaggio, debitore dello stile di quella Nouvelle Vague di ritorno che era il New Cinema americano degli anni ’70, e dell’estetica del Martin Scorsese di Mean Street e Taxi Driver in particolare. C’è dunque un contrasto tra la resa naturalistica della fotografia e un montaggio estetizzante che potrebbe far storcere il naso a chi nei film di denuncia, o comunque di argomento sociale, pretende un taglio esclusivamente realistico e ai limiti dello stile documentario.

L’incipit del film segue proprio questa direzione: (more…)

Recensioni: Tabarly – Yann Tiersen

29/06/2009

(In ascolto: Point Mort – Yann Tiersen)

Pubblicato su Lankelot, giugno 2009.

Tabarly è la colonna sonora che Yann Tiersen ha composto nel 2008 per il documentario omonimo del regista Pierre Marcel dedicato al navigatore francese Eric Tabarly, vincitore nel 1964 della regata transatlantica in solitaria e scomparso  nel 1998, al largo del mare Tabarlyd’Irlanda. Quella di Eric Tabarly in Francia è una vera e propria figura di culto, i cui libri – editi in Italia da Ugo Mursia Editore – hanno formato intere generazioni di velisti e appassionato ogni lettore che avesse nel mare il cuore. Tiersen, originario di Brest in Bretagna, già con l’album del 1997, Le Phare, si era lasciato ispirare da quello che da sempre è una delle fonti artistiche più scandagliate da poeti, musicisti e pittori. Alcune delle canzoni di Le Phare finirono poi anche nella colonna sonora de Il favoloso mondo Amèlie, contribuendo al successo del film che ha donato al compositore francese una certa notorietà anche al di fuori della Francia. Tant’è vero che ancora oggi, complice anche la spledida soundtrack firmata per il film Goodbye Lenin, Tiersen viene considerato, o meglio, ricordato dal grande pubblico soprattutto come compositore di colonne sonore. Un tipo di musica da sempre ostracizzata dalla critica musicale e  repentinamente relegata in una sorta di ghetto, per l’erronea valutazione di considerala sempre subordinata alle immagini. Eppure, Tiersen è un musicista dall’incessante attività, autore di album come il già citato Le Phare, L’absente (2001) e Les Retrouvailles (2005) che si pongono come degli splendidi ibridi tra musica colta e musica folk, e, negli episodi non strumentali genuinamente pop, grazie anche all’apporto di gente come Elizabeth Frazer dei Cocteau Twins, Stuart Apples dei Tindersticks, Neil Hannon dei Divine Comedy e Lisa Germano. Tutti nomi dall’incredibile background internazionale che ben testimoniano la stima di cui gode Tiersen tra i suoi colleghi. In questi album ciò che emerge è il grandissimo talento di Tiersen nell’intrecciare splendide melodie non solo con il pianoforte, ma  anche con un’incredibile gamma di strumenti – onde martenot, xylophono, chitarra elettrica ed acustica, clavicembalo, ma anche tastierine Bontempi e macchine da scrivere  – tra i quali sicuramente spicca per intensità l’accordèon, il cui suono Tiersen modula ora in maniera struggente ora in maniera gioiosa, restituendo quasi i colori al mondo.

Per Tabarly, Tiersen, essendo al lavoro anche sul suo nuovo album, ha lavorato quasi esclusivamente con il pianoforte, sebbene in alcune interviste abbia espresso come questo modo di comporre musica gli sia venuto a noia. L’eccezione per Tabarly è dovuta proprio alla possibilità di un’ispirazione che doveva giungere dal mare. E, ascoltando i 15 brani di cui è composto l’album, viene da pensare che Tiersen abbia lavorato non solo nel tentativo di suggerire con le sue note i colori e il movimento delle onde, ma abbia cercato con il suo tocco di sostituirsi ad esse, restituendone quasi l’odore. Come spiegare il mare a chi non lo hai mai visto. Dire il mare. Ciò che potrebbe  sembrare estremamente ambizioso è in realtà svolto nel segno del minimalismo: i suoi piano-solo ancora più che in passato sono infatti debitori non solo della lezione di un maestro mai troppo omaggiato quale Erik Satie ma anche dei sentieri già solcati da Harold Budd. Quella che è la sua cifra stilistica più riconoscibile, ossia l’abilità nel variare di intensità all’interno di uno stesso pezzo agendo perfettamente sulle dinamiche piano/forte, sembra quasi restituire i moti dell’animo di Eric Tabarly, che si fa quasi archetipo di tutti gli uomini di mare, e di tutti quegli uomini che del mare hanno fatto la propria musa. Da qui brani ora languidi e distensivi come La Longe Route e La Corde, ora brani di stampo più romantico (termine da considerare nella sua accezione più autentica) come Naval e Point Mort nei quali è evidente l’influenza di Chopin e Debussy soprattutto. Altre volte ancora, il sentimento è più malinconico e in brani come Yellow – arricchito anche dall’accompagnamento dell’accordèon -, Derniere e Atlantique Nord, lo sguardo sembra  essere proprio quella del vecchio Eric Tabarly al ritorno da una delle sue regate e che alle prime luci del faro sulla costa, volge il viso a metà tra il mare alle sue spalle e la terra che si avvicina, respirando a pieno polmoni, per un istante, la brezza marina.

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