(In ascolto: Dark Night of the Soul – Danger Mouse and Sparklehorse feat. Vic Chesnutt)
Pubblicato su Lankelot, agosto 2009.
«Quando ho detto alla televisione e alla radio che il mio film, Il testamento di Orfeo, “non avrebbe avuto né capo né coda, ma un’anima”, io scherzavo senza scherzare. Perché, in effetti, io mi meraviglio – in un’epoca in cui i pittori hanno sacrificato il soggetto all’arte del dipingere e annullato il modello o pretesto per dipingere – che i registi, assillati dai produttori che credono di conoscere il pubblico e sono rimasti al bambino che vuole che gli si racconti una storia, esigano un “soggetto” e un pretesto mentre il modo di dire, di mostrare le cose, e di ammobiliare lo schermo è mille volte più importante di quello che vi si racconta».
(J. Cocteau, Tel Cinèma, Edizioni Il Formichiere, Milano, 1979.)
Parigi, maggio 1968, the times they are a-changin’. Franςois Dervieux (Louis Garrel) è uno dei tanti giovani che partecipano alle proteste per le strade della capitale francese. Ha vent’anni. È un poeta. Durante uno scontro con la polizia riesce a fuggire ad una carica della polizia trovando rifugio sui tetti di un palazzo, dove trascorre il resto della notte. La rivolta è fallita, gli operai interrompono gli scioperi mentre gli studenti si interrogano sulle possibilità della rivoluzione; uno di questi si chiede se è possibile una rivoluzione per il proletariato senza che il proletariato vi prenda parte, e sembra svelarci un interrogativo che forse lo stesso Philippe Garrel aveva nel 1968, quando era lui stesso studente. Interrogativo che interpreto in questa maniera non nasconde una certa dose di sconfitta e fallimento e una forte critica nei confronti di tutto il movimento sessantottino. Messo sotto processo per aver disertato il servizio militare, Franςois si trasferisce nell’appartamento di Antoine, un giovane borghese che ha avuto in eredità un grosso patrimonio, e che gioca a fare la rivoluzione ospitando nel suo appartamento un gruppo di giovani bohémien facendogli anche da mecenate. Durante una festa, Franςois incontra Lilie (Clotilde Hesme) anch’essa giovane artista – una scultrice. Tra i due l’attrazione è istantanea e nelle tre ore di cui è composto il film, diviene amore. Fino a quando Lilie, per realizzare il suo sogno di divenire una scultrice, non si trasferisce a New York al seguito di un artista affermato per cui ha posato come modella e che le promette un futuro prospero.
Questa la trama, ma potremmo tranquillamente farne a meno. Il tempo – il maggio francese – e lo spazio – una Parigi sempre fotogenica nonostante i suoi simboli non entrino mai a far parte dello spazio scenico – sono dei semplici accessori. Il film di Garrel non è un film che parla di ideali. È un film che invece, l’ideale, lo mette in scena. Ed è l’ideale del cinema come arte autonoma, pura.
Garrel non si limita a raccontare, piuttosto descrive, trascrive, opera dietro la macchina da presa con distacco e forse disincanto, senza cadere nella tentazione mitografica del maggio francese. Questa innanzitutto la differenza più grande con The Dreamers di Bernardo Bertolucci, film con il quale è spesso paragonato.
Bravissimi gli attori, capaci di reggere lunghe inquadrature a camera fissa, dove basta il solo movimento degli occhi o delle labbra, a sostituire tutte le parole che non necessitano di essere dette perché costituiscono l’esternazione dei moti dell’animo. Spesso, in queste scene sono dei brevi pezzi di pianoforte alla maniera dei Preludes di Chopin ad accompagnare i movimenti degli attori, fungendo da cassa di risonanza dei loro sentimenti e realizzando un cinema che grazie anche alla fotografia in bianco e nero di William Lubtchansky è più vicino alle suggestioni pittoriche che a quelle propriamente cinematografiche, se il cinema lo si intende (e riduce) a qualcosa fatto esclusivamente di trama e dialoghi. Ed è qui che va anche trovato il debito che Garrel ha nei confronti della Nouvelle Vague e di Godard in particolare, nell’importanza data alla macchina da presa e ai suoi movimenti rispetto alla sceneggiatura, nella ricerca di un cinema puro, alla perenne ricerca della poesia nell’immagine piuttosto che nella parola. Come affermava Jean Cocteau, colui che i giovani registi della Nouvelle Vague ritenevano il proprio padre spirituale, la macchina da presa permette di creare una successione di immagini in movimento tali da dare precedenza alla vena pittorica e grafica a svantaggio della vena drammaturgica. Il cinema, declinato secondo il particolare uso cocteliano (e quindi poi Godardiano), amplifica la pregnanza semantica della poesia grazie alla visualizzazione delle immagini e alla tecnica riproduttiva. Per Cocteau il cinema arrivava ad essere il mezzo migliore per descrivere la necessità poetica di uscire dai confini della sola parola e il cinema di Garrel sembra andare proprio in questa direzione. Interessante a questo punto, è anche la scelta di strutturare il film in capitoli, segno sì della matrice letteraria dell’opera ma nel modo in cui essa realizza il tentativo di compiere non una narrazione di immagini ma una narrazione per immagini. Garrel non narrativizza; quella proiettata sullo schermo è invece il tentativo di creare un’immagine che si narra da sola, autonomamente, senza dover ricorrere all’escamotage dell’immagine onirica o surreale e affondando invece le sue radici nella quotidianità, nella piena tradizione realistica. Questo, a parere di chi scrive, il grande merito artistico del film di Garrel. Il realismo è totale ed avvolge ogni elemento del film. Suono in presa diretta e lunghi silenzi spezzati da dialoghi rubati dalla quotidianità e che raramente mirano alla frase ad effetto, nonostante il protagonista del film sia un poeta e la sua amante, una scultrice. Nessuna artificiosità, se non quella propria della grande arte che ci mostra, facendocelo vivere, il migliore dei mondi possibili.