Archive for the ‘Recensioni’ Category

Recensioni: L’illusionista – Sylvain Chomet

28/12/2010

(In ascolto: Tango Apasionado – Astor Piazzolla)

Pubblicato su Lankelot, novembre 2010.

Autore nel 2003 di quel piccolo gioiello che è Les Triplettes de Bellevile (Appuntamento a Belleville), Sylvan Chomet per la sua opera seconda non cambia la modalità espressiva, quella del cinema di animazione, e rende omaggio ad uno dei personaggi più originali del cinema francese, quel Jacques Tati autore di quella esilarante e malinconica maschera che era Monsieur Hulot, protagonista di pellicole come Mon Oncle (Mio Zio), premio Oscar per il miglior film straniero nel 1958. L’illusionista è infatti una sceneggiatura dello stesso Tati, scritta l’indomani di Mon Oncle e rimasta inedita fino ad oggi. Dopo aver visto la prima pellicola di Chomet (nella quale era presente più di un omaggio all’opera di Tati), la figlia di Jacques, Sophie Tatischeff, ha pensato di affidare la realizzazione di questo progetto allo stesso Chomet. In un periodo in cui l’entusiasmo degli spettatori per la settima arte è sempre più (definitivamente?) attratto dalla cultura hollywodiana dell’immagine spettacolarizzata rappresentata ora dal 3D ora dalle immagini digitali Disney-Pixar, non può non destare ammirazione e viva commozione il susseguirsi di ogni singolo fotogramma di quest’opera, in cui ai pixel si preferisce il tratto disegnato. Perché il cinema d’animazione non è un semplice genere cinematografico, ma un vero e proprio modo di vedere il mondo. È una visione, come Miyazaki da più di trent’anni ci insegna con i suoi film. Ed è la modalità espressiva che oggi, essendo diventata la più desueta, maggiormente è in grado di mostraci la magia – è il caso di dirlo – del cinema. Quella magia in grado di provocare entusiasmi e meraviglie così affini ai moti dell’animo propri dell’infanzia. E non è un caso che l’incipit del film inneschi un semplice ma ben marcato rapporto di metacinematografia, con lo schermo che mostra un cinema nel quale si sta per proiettare un film: L’illusionista. (more…)

Recensioni: Merci-Cucù – El Ghor + Intervista con la band.

04/03/2010

Pubblicato su Lankelot, Marzo 2010.

Urge sfatare un luogo comune instaurato dalle multinazionali dell’industria cosmetica: la lingua francese non è quella cosa tanto femminea e patinata che si sente nei vari spot televisivi; e, spiace dirlo, non è neanche quel cumulo di sospiri e note sibilate che Serge Gainsbourg e Jane Birkin hanno consegnato alla storia con un pezzo come Je t’aime moi non plus. In realtà, il francese, è una lingua dai suoni crudi, che poco spazio lascia all’armonia delle vocali. È una lingua decisamente chiaroscurale, che sui contrasti tra suoni nasali e aspirati e asprezze consonantiche fonda tutto il suo autentico fascino. Ed è per questo motivo che urge sfatare un secondo luogo comune: quello che vuole per l’appunto il francese una lingua incapace ad adattarsi ai canoni e alle forme della musica rock La ribalta internazionale di alcuni artisti d’oltrape come Noir Dèsir e Yann Tiersen, e prima ancora i Mano Negra, nonché un fenomeno musicale così particolare come i canadesi Arcade Fire – i cui testi sono anche in francese –  hanno contribuito a gettare luce su di una realtà musicale, prima nota unicamente per la propria tradizione cantautoriale. (more…)

The Top 10 Album of 2009

28/12/2009

E partiamo, anzi, concludiamo con le classifiche. Oggi, la mia personale riguardo le uscite di questo 2009.

10. Sometimes I Wish I Were an Eagle – Bill Callahan

Bill Callahan si conferma come uno dei migliori cantautori della sua generazione, dando alla luce l’album acustico che Springsteen sogna di fare da una vita.

9. White Lies for Dark Times – Ben Harper & Relentless 7

Messi momentaneamente da parte gli Innocent Criminals, Ben Harper confeziona con la sua nuova band uno dei suoi album migliori.


8. Wolfgang Amadeus Mozart – Phoenix

Un piccolo manuale di costruzione della perfetta canzone pop in dieci rapidi esempi.


7. No Line on the Horizon – U2

Un inatteso ritorno, dopo gli sfracelli dell’ultimo decennio. Non tutto funziona, ma quando ci riesce sembra di ritrovare il vecchio fuoco indimenticabile.


6. Dark Night of the Soul – Danger Mouse and Sparklehorse

Il disco è siglato Danger Mouse e Sparklehorse, ma vi hanno collaborato le migliori menti musicali di questo decennio: Flaming Lips, The Shins, Grandaddy, Julian Casablancas e l’immenso Vic Chesnutt che con la title-track ci regala un brano di una bellezza lacerante.


5. Ovations – Piano Magic

Ovations non sarà forse il loro migliore lavoro, ma buona parte di questi brani, sono da ascrivere alla loro migliore produzione.


4. Controlling Crowds – Archive

Misconosciuti in Italia, completamente snobbati in patria, idolatrati dalla critica francese, gli Archive hanno prodotto quello che è il più bel concept album su questi nostri tempi.


3. Through the Devil and Softly – Hope Sandoval and The Warm Invention

L’album della maturità artistica. Arrangiamenti curatissimi ma sempre sobri, ed una voce che è semplicemnte la più bella di quelle femminili.


2. The Crying Light – Antony and the Johnsons

Fare meglio di I Am a Bird Now era praticamente impossibile. Eppure Antony c’è andato vicinissimo, e in più di una traccia riesce a far dimenticare l’illustre predecessore.


1. Yonder is the Clock – The Felice Brothers

Recensione di luglio 2009 qui

Recensioni: Be Kind Rewind (Gli acchiappafilm) – Michel Gondry

11/12/2009

(In ascolto: Unspeakable – Arca)

Pubblicato su Lankelot, dicembre 2009.


Il cinema di Michel Gondry ha rappresentato sin dal suo esordio dietro la macchina da presa una delle forme più autentiche di resistenza culturale, prima trasformando il videoclip da accessorio puramente commerciale in qualcosa con una propria dignità artistica, poi realizzando una serie di film in netto contrasto con la debordante spettacolarizzazione delle immagini propria del cinema di Hollywood, sostituendo all’effetto scenico digitale, quello artigianale carico della creatività – questa sì debordante – propria dell’infanzia. L’e(s)tica di Gondry è debitrice di quella propria dei grandi registi della Nouvelle Vague, che partendo dalle esperienze di Rossellini s’inventarono un cinema “povero” se paragonato a quello dei grandi studios americani, ma che faceva della povertà dei mezzi non un limite, bensì il campo entro cui giocare la propria partita. E fu questo il modo in cui il cinema fu reinventato. Reinventare il cinema. È questo il concetto alla base di Be Kind Rewind, l’ultima pellicola di Gondry. Così come nel precedente The Science of Sleep reinventava il mondo con i colori propri del sogno, in Be Kind Rewind il cinema è reinventato con i colori propri della memoria, dei ricordi. Più propriamente con i colori dell’immaginario collettivo, di cui quello cinematografico è sicuramente il serbatoio più carico. Il soggetto del film sembra provenire direttamente dagli anni ’80; con ogni probabilità è il film che John Landis ha sempre sognato di realizzare: nel tentativo di sabotare la centrale elettrica della città (Passaic, New Jersey) Jerry (Jack Black) viene colpito da una scarica elettrica che lo rende una fonte elettromagnetica in grado di smagnetizzare tutte le Vhs del videonoleggio dell’amico Mike (Mos Def). Da quel momento in poi i due saranno costretti a girare nuovamente intere sequenze dei film richiesti a nolo e che incredibilmente incontrano il favore di tutta la comunità cittadina, che sembra svegliarsi dal torpore tipico della periferia americana.

Uno dei personaggi più splendidamente caratterizzati è quello interpretato da Mia Farrow, che sembra quasi essere la copia carbone di quello interpretato vent’anni prima in uno dei film più appassionati di Woody Allen, La rosa Purpurea del Cairo, altra pellicola che dichiarava tutto il proprio smoderato amore nei confronti della settima arte nel tentativo in cui cercava di applicare quel bellissimo postulato di Andrè Bazin secondo cui «il cinema sostituisce al nostro sguardo il mondo che desideriamo». Perché Be Kind Rewind è un vero e proprio atto d’amore per il cinema nella sua integralità, come testimonia la scelta dei film reinventati: dai blockbuster cult (Ghostbusters e Ritorno al Futuro) al film d’autore (2001 Odissea nello spazio) passando per il cinema di animazione (Il Re Leone, che nel film viene considerato reinterpretazione delle tragedie shakespeariane!). Be Kind Rewind è un film che mette in scena la “magnifica ossessione” caricandola dell’intensità dello stupore infantile. Stupore che ritroviamo nelle immagini finali nei volti meravigliati e carichi di commozione dei cittadini di Passaic, che traducono il grande sogno di un cinema come epopea collettiva  e dell’arte quale fenomeno civilizzatore. Perché, riprendendo una delle battute più belle del film, «la vita senza civiltà è brutale, cattiva, corta».

Giovanni di Benedetto.

Recensioni: Rooms Ep – The Mantra atsmm

31/10/2009

Pubblicato su Lankelot, ottobre 2009.

 

the mantra atsmm rooms epQuest’anno non dovremo guardare verso ovest o alla terra di Albione  per andare incontro alla next big thing. Segnatevi questo nome: The Mantra Above The Spotless Melt Moon. Non tragga in inganno il nome: i Mantra sono una giovane band napoletana con una visione musicale, però, decisamente internazionale. Non a caso i talent scout dell’etichetta inglese Rare Noise Records, li hanno messi sotto contratto assicurandosi l’uscita di questo ep, Rooms, in attesa della pubblicazione del primo full-length nel corso dell’inverno. Dopo un promettente split in compagnia dei già rodati God is An Astronaut, questo nuovo ep non fa che confermare le capacità sinora espresse. Dallo split vengono recuperate due tracce, Helder Pedro Moreira e The Fog, qui presentate con un missaggio differente che ne accentua il valore, mettendo in mostra la cura che la band riserva per ogni piccola sfumatura sonora. Si prenda ad esempio proprio la traccia d’apertura, “Helder Pedro Moreira”, nel quale sono presenti delle riuscite armonizzazioni tra la linea melodica e i vocalismi della cantante Adriana Salomone. L’eterea melodia è squarciata dalle aperture di una chitarra sempre emotiva, memore della lezione di un gruppo troppo spesso dimenticato quale gli Slowdive, ed è interamente sorretta da un’eccellente sezione ritmica che dona al pezzo un groove non indifferente. La seconda traccia è quella che dona il titolo all’ep, “Rooms”, e nei sui due minuti di durata rappresenta una vera e propria perla sulla quale nel prossimo inverno ritorneremo molto spesso, per stemperare gli umori malinconici che sempre accompagnano la caduta della pioggia. Il pezzo è un incantevole bozzetto impressionista che intreccia elementi ambient e il folk minimalista della Cat Power degli esordi, la cui straziante intensità è ripresa dall’interpretazione di Adriana Salomone. “The Fog” è invece un pezzo dalla complessa struttura armonica e dai frequenti cambi di ritmo, che meglio evidenzia la matrice progressive della band, ben dissimulata però sotto una coltre di chitarre più vicine all’emotività degli shoegazer che a quella più celebrale di tanto post-rock sempre uguale a sé stesso. La traccia finale, A Friend With a Knife presenta una collaborazione con uno dei protagonisti della scena underground americana, Eugene Robinson degli Oxbow, la cui interpretazione, ai limiti della nevrastenia, ben si intreccia con le trame chitarristiche di Maurizio Oliviero e Adriana Salomone e con una linea di basso pulsante e ossessiva che sembra tradurre in musica le immagini di un noir ambientato in una casa alla fine del mondo. Anche in questo pezzo è da ammirare la capacità di questa giovane band di rielaborare con autorevolezza le logore forme dello schema post-rock, in un modo non troppo lontano da quello intrapreso da Glen Johnson con i suoi Piano Magic.

La capacità di assorbire le più disparate influenze musicali (i già citati Slowdive, Piano Magic e Cat Power, ma anche Tool, Radiohead, Devics e Beth Gibbons) trasformandole a proprio piacimento in qualcosa da rimodellare secondo la propria immagine, dimostra un’intelligenza e un’abilità tecnica che ci sembra possa sorreggere il salto che porterà il passaggio dalla breve durata a quella più impegnativa dell’Lp. Un Lp che, se le premesse sono queste, farà molto parlare di sé, nei mesi che verranno.

Video:

The Fog

Recensioni: Il Calamaro e la Balena – Noah Baumbach

02/10/2009

(In ascolto: Charlotte Sometimes – The Cure)

Pubblicato su Lankelot, settembre 2009.

L’adolescenza è con molta probabilità il soggetto cui la rappresentazione cinematografica incontra maggiormente i suoi limiti. Questo perché spesso le sceneggiature partono da futili premesse di tipo sociologico, che spostano l’attenzione sui soggetti della rappresentazione, vale a dire gli adolescenti, trattandoli di conseguenza quasi come oggetti di studio, semplice fenomeno da analizzare. Prospettiva questa che altera completamente la realtà delle cose perché tende ad oggettivizzare ciò che invece è puramente soggettivo, in questo caso la Weltanschauung propria di un adolescente. Da qui tutta una serie di pellicole mediocri che non fanno altro che limitarsi a registrare unicamente gli eccessi e le stravaganze del mondo adolescenziale, rigettando qualsiasi tentativo di introspezione psicologica. Ciò che andrebbe dipinto alla stregua di un quadro impressionista, con i colori che sfumano l’uno nell’altro è invece ritratto con contorni marcati e netti. Il che provoca personaggi che sono come dei monoliti di granito che neanche il regista più capace sarebbe in grado di malleare per darne una forma sensibile.

Ci sono dei casi però in cui il racconto affonda le proprie radici nelle esperienze biografiche e le sceneggiature diventano quasi confessione diaristica o psicologica, riuscendo a conquistare in questo modo una certa dignità letteraria. (more…)

Recensioni: Les amants reguliers – Philippe Garrel

20/08/2009

(In ascolto: Dark Night of the Soul – Danger Mouse and Sparklehorse feat. Vic Chesnutt)

Pubblicato su Lankelot, agosto 2009.

«Quando ho detto alla televisione e alla radio che il mio film, Il testamento di Orfeo, “non avrebbe avuto né capo né coda, ma un’anima”, io scherzavo senza scherzare. Perché, in effetti, io mi meraviglio – in un’epoca in cui i pittori hanno sacrificato il soggetto all’arte del dipingere e annullato il modello o pretesto per dipingere – che i registi, assillati dai produttori che credono di conoscere il pubblico e sono rimasti al bambino che vuole che gli si racconti una storia, esigano un “soggetto” e un pretesto mentre il modo di dire, di mostrare le cose, e di ammobiliare lo schermo è mille volte più importante di quello che vi si racconta».

(J. Cocteau, Tel Cinèma, Edizioni Il Formichiere, Milano, 1979.)

Parigi, maggio 1968, the times they are a-changin’. Franςois Dervieux (Louis Garrel) è uno dei tanti giovani che partecipano alle proteste per le strade della capitale francese. Ha vent’anni. È un poeta. Durante uno scontro con la polizia riesce a fuggire ad una carica della polizia trovando rifugio sui tetti di un palazzo, dove trascorre il resto della notte. La rivolta è fallita, gli operai interrompono gli scioperi mentre gli studenti si interrogano sulle possibilità della rivoluzione; uno di questi si chiede se è possibile una rivoluzione per il proletariato senza che il proletariato vi prenda parte, e sembra svelarci un interrogativo che forse lo stesso Philippe Garrel aveva nel 1968, quando era lui stesso studente. Interrogativo che interpreto in questa maniera non nasconde una certa dose di sconfitta e fallimento e una forte critica nei confronti di tutto il movimento sessantottino. Messo sotto processo per aver disertato il servizio militare, Franςois si trasferisce nell’appartamento di Antoine, un giovane borghese che ha avuto in eredità un grosso patrimonio, e che gioca a fare la rivoluzione ospitando nel suo appartamento un gruppo di giovani bohémien facendogli anche da mecenate. Durante una festa, Franςois incontra Lilie (Clotilde Hesme) anch’essa giovane artista – una scultrice. Tra i due l’attrazione è istantanea e nelle tre ore di cui è composto il film, diviene amore. Fino a quando Lilie, per realizzare il suo sogno di divenire una scultrice, non si trasferisce a New York al seguito di un artista affermato per cui ha posato come modella e che le promette un futuro prospero.

Questa la trama, ma potremmo tranquillamente farne a meno. Il tempo – il maggio francese – e lo spazio – una Parigi sempre fotogenica nonostante i suoi simboli non entrino mai a far parte dello spazio scenico – sono dei semplici accessori. Il film di Garrel non è un film che parla di ideali. È un film che invece, l’ideale, lo mette in scena. Ed è l’ideale del cinema come arte autonoma, pura.

Garrel non si limita a raccontare, piuttosto descrive, trascrive, opera dietro la macchina da presa con distacco e forse disincanto, senza cadere nella tentazione mitografica del maggio francese. Questa innanzitutto la differenza più grande con The Dreamers di Bernardo Bertolucci, film con il quale è spesso paragonato.

Bravissimi gli attori, capaci di reggere lunghe inquadrature a camera fissa, dove basta il solo movimento degli occhi o delle labbra, a sostituire tutte le parole che non necessitano di essere dette perché costituiscono l’esternazione dei moti dell’animo. Spesso, in queste scene sono dei brevi pezzi di pianoforte alla maniera dei Preludes di Chopin ad accompagnare i movimenti degli attori, fungendo da cassa di risonanza dei loro sentimenti e realizzando un cinema che grazie anche alla fotografia in bianco e nero di William Lubtchansky è più vicino alle suggestioni pittoriche che a quelle propriamente cinematografiche, se il cinema lo si intende (e riduce) a qualcosa fatto esclusivamente di trama e dialoghi. Ed è qui che va anche trovato il debito che Garrel ha nei confronti della Nouvelle Vague e di Godard in particolare, nell’importanza data alla macchina da presa e ai suoi movimenti rispetto alla sceneggiatura, nella ricerca di un cinema puro, alla perenne ricerca della poesia nell’immagine piuttosto che nella parola. Come affermava Jean Cocteau, colui che i giovani registi della Nouvelle Vague ritenevano il proprio padre spirituale, la macchina da presa permette di creare una successione di immagini in movimento tali da dare precedenza alla vena pittorica e grafica a svantaggio della vena drammaturgica. Il cinema, declinato secondo il particolare uso cocteliano (e quindi poi Godardiano), amplifica la pregnanza semantica della poesia grazie alla visualizzazione delle immagini e alla tecnica riproduttiva. Per Cocteau il cinema arrivava ad essere il mezzo migliore per descrivere la necessità poetica di uscire dai confini della sola parola e il cinema di Garrel sembra andare proprio in questa direzione. Interessante a questo punto, è anche la scelta di strutturare il film in capitoli, segno sì della matrice letteraria dell’opera ma nel modo in cui essa realizza il tentativo di compiere non una narrazione di immagini ma una narrazione per immagini. Garrel non narrativizza; quella proiettata sullo schermo è invece il tentativo di creare un’immagine che si narra da sola, autonomamente, senza dover ricorrere all’escamotage dell’immagine onirica o surreale e affondando invece le sue radici nella quotidianità, nella piena tradizione realistica. Questo, a parere di chi scrive, il grande merito artistico del film di Garrel. Il realismo è totale ed avvolge ogni elemento del film. Suono in presa diretta e lunghi silenzi spezzati da dialoghi rubati dalla quotidianità e che raramente mirano alla frase ad effetto, nonostante il protagonista del film sia un poeta e la sua amante, una scultrice. Nessuna artificiosità, se non quella propria della grande arte che ci mostra, facendocelo vivere, il migliore dei mondi possibili.

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Recensioni: L’odio – Mathieu Kassovitz

15/08/2009

(In ascolto: Des Armes – Noir Dèsir)

Pubblicato su Lankelot, agosto 2009.

C’è una capacità che andrebbe sempre riconosciuta al cinema francese, o meglio, all’industria cinematografica francese. Quella di costituire l’unica vera opposizione, l’unico tentativo di resistenza a quella imperante proveniente dall’America. Andrebbe riconosciuta la sua capacità di proporre un’offerta cinematografica a trecentosessanta gradi, che fugge quasi sempre all’appiattimento del cinema di genere, come è invece avvenuto in Italia dopo la fertile stagione neorealista. Stagione così fertile che ha segnato profondamente il modo di fare cinema in Italia, per cui – tranne alcune eccezioni ben isolate (ovviamente Fellini, ma anche Moretti e i più recenti Garrone e Sorrentino) – non si è mai riusciti a superare un modello che non ha saputo rinnovarsi e adattarsi ad un contesto sociale differente da quello in cui il neorealismo era nato. E a questa mancanza di rinnovamento si è aggiunta negli anni l’avanzata di quello standard televisivo che oggi ormai impera in ogni produzione nostrana. A questa regola hanno saputo invece sottrarsi una serie di registi in Francia in grado di proporre un’offerta diversificata, capace di spaziare dalla commedia (Jeunet, Klapish, Veber) al blockbuster (Besson), dal noir moderno (Audiard) al grottesco (Carax e Gondry), passando per l’animazione (Ocelot, Chomet) e il documentario (Jaquet) per non parlare dell’ecletticità di un autore come Patrice Leconte. Il tutto sempre rivendicando la dignità artistica del mezzo cinematografico, quella capacità che Andrè Bazin rivendicava al cinema di “sostituire al nostro sguardo il mondo che desideriamo”.

In questo prolifico filone di talentuosi registi d’oltralpe, parve inserirsi nel 1995 Mathieu Kassovitz con un’opera come La Haine che gli valse il premio per la miglior regia al 48° Festival di Cannes. Un film che lasciava intravedere per l’allora ventottenne Kassovitz una lunga e prolifica carriera. Ma, le opere successive dietro la macchina da presa hanno negli anni smentito clamorosamente tutte le buone promesse fatte nel 1995. Eppure, L’Odio, rimane ancora oggi un’opera dall’indiscutibile valore, estetico e sociale. Un film di denuncia che mostra la propria morale per contrasti, bagnandosi in un mondo amorale, in cui non vale più neanche la legge del più forte, ma quella del puro determinismo. Un film che agisce per simmetrie e per contrasti, come il bianco ed il nero del film, che nulla lascia allo spazio lirico delle immagini. L’estetica alla base del film è più vicina a quella di un autore letterario come Cèline che a quella di un Truffaut. La fotografia di Pierre Aim non estetizza, anzi, i bianchi e i neri rimarcano piuttosto le imperfezioni, ora i tratti ruvidi del profilo di Vincent Cassel ora le spigolosità delle geometrie architettoniche del paesaggio urbano della banlieu, così come i pieni e i vuoti di cui è composto lo stesso tessuto urbano. L’estetizzazione passa invece attraverso il montaggio, debitore dello stile di quella Nouvelle Vague di ritorno che era il New Cinema americano degli anni ’70, e dell’estetica del Martin Scorsese di Mean Street e Taxi Driver in particolare. C’è dunque un contrasto tra la resa naturalistica della fotografia e un montaggio estetizzante che potrebbe far storcere il naso a chi nei film di denuncia, o comunque di argomento sociale, pretende un taglio esclusivamente realistico e ai limiti dello stile documentario.

L’incipit del film segue proprio questa direzione: (more…)

Recensioni: Yonder is the Clock – The Felice Brothers

29/07/2009

(In ascolto: Ambulance Man – The Felice Brothers)

Pubblicato su Lankelot, luglio 2009.

Quella dei fratelli Felice, Simone, Ian e James, sembra essere la più tipica delle storie americane, quelle che si incontrano tra le pagine dei libri di Jack London e Jack Kerouac. Storie fatte di polvere e asfalto e musica. Tre fratelli nati nello stato di New York, lungo le rive del fiume Hudson, con una tYonder is the clockipica attitudine da hobo che li ha portati fin da giovani in giro per le vecchie highways americane, sporche di polvere e benzina e musica. Perché la lingua americana non è fatta di suoni – quello è inglese; la lingua americana è fatta di storie. Storie depositate al margine della strada, dove non crescono i fiori. E quando queste storie sono colte dai musicisti, prendono il nome di blues, di folk, di country. Qualcosa di più che semplici etichette che indicano un genere musicale, qualcosa che ha a che fare con l’anima ed il modo si sentirsi e stare al mondo.

Yonder is the Clock è un’espressione presa dalle pagine di Mark Twain, l’autore di quello che secondo Hemingway era il libro dal quale è nata tutta la letteratura americana, Huckleberry Finn. Perché, nel caso non si fosse capito dalle battute iniziali di questa recensione, questo è un album di musica americana dalla prima all’ultima nota, che ben poco si lascia andare alle fascinazioni melodiche d’oltremanica. Siamo più vicini ai territori dei Wilco di Being There che di Summerteth, per intenderci.

Rispetto al folgorante esordio del 2007, Tonight at the Arizona, gli arrangiamenti sono più ricchi ma pur sempre soggetti ad una chiara filosofia lo-fi. Pur mantenendo infatti la loro veste essenzialmente acustica, molte canzoni presentano bellissimi ricami di fisarmonica (Ambulance Man), pianoforte (la struggente Sailor Song, ispirata ai racconti melvilliani), trombe e hammond, e nelle canzoni più veloci (Penn Station, Chicken Wire e l’irresistibile Run Chicken Run), un violino che sembra portare l’ascoltatore direttamente tra la folla del Newport Folk Festival. Il mood dell’album è piuttosto malinconico. Una malinconia però, prettamente americana e distante dallo spleen europeo. È la malinconia tipica dei buskers e degli hobos, qualcosa che ha le necessità di essere cantato per essere compreso. Quello che ne segue è la presenza quasi totale all’interno del disco di struggenti ballads che si alternano tra waltzer e nenie tipicamente folk, come l’incipit del disco, The Big Surprise, che pure presenta delle deviazioni da quello che è propriamente il canone folk, con alcuni effetti rumoristici affidati alle incursioni della batteria. Rispetto all’album d’esordio, si evidenzia infatti una maggiore maturità artistica che dimostra l’inizio di una ricerca musicale più personale, capace di districarsi con abilità all’interno di un genere tradizionale (e conservatore) come la musica folk. Personalità che però non è da confondersi con originalità. Chi dalla musica infatti si attende sempre un qualche elemento di innovazione o di sperimentazione, è bene che stia alla larga da questo album. Sebbene siano tutte aspettative lecite, dagli anni ’90 in poi si è abusato troppo spesso della nozione di “sperimentale” e “innovativo” per distinguere la buona musica dalla cattiva. Personalmente, ritengo che attualmente, in un mercato saturo come quello musicale, dove l’offerta grazie ad internet è praticamente sconfinata, l’unica vero fattore che dovrebbe fare da cernita sia la sincerità, l’onestà o comunque, qualcosa che abbia a che fare con il concetto di purezza artistica. Qualcosa di cui spesso la musica inglese ha fatto volentieri a meno, mentre quella americana, proprio per il fatto di essere espressione dell’anima di un popolo, ha custodito gelosamente. Il rischio di una scelta del genere è quella di vedere relegato questo splendido album all’interno dei confini della musica di genere, tra le  mura di un ghetto dalle pareti colme dei poster e dei fantasmi di Woody Guthry, Pete Seeger, Johnny Cash e ovviamente il solito Dyaln, col suo ghigno sornione e beffardo, sempre sull’orlo di prenderti per il culo. Eppure, il fatto di suonare come classici non dovrebbe essere altro che indice della grande abilità dei Felice Brothers. La musica pop sembra essere l’unico tipo di arte per cui lo status di “classico” sembra essere un demerito. Eppure, finchè l’uomo avrà nelle mani una chitarra, o un’armonica, o il semplice battere del suo piede, queste canzoni esisteranno sempre. Perché, riprendendo una frase di Jean Cocteau, “queste storie non accadono mai. Sono sempre”.

Ma, fondamentalmente, c’è un semplice motivo per cui ascoltare Yonder is the Clock e tenerselo ben stretto nei mesi a venire: difficilmente troverete in questo 2009 un altro disco con una tale sequenza di belle canzoni. (more…)

Recensioni: Tabarly – Yann Tiersen

29/06/2009

(In ascolto: Point Mort – Yann Tiersen)

Pubblicato su Lankelot, giugno 2009.

Tabarly è la colonna sonora che Yann Tiersen ha composto nel 2008 per il documentario omonimo del regista Pierre Marcel dedicato al navigatore francese Eric Tabarly, vincitore nel 1964 della regata transatlantica in solitaria e scomparso  nel 1998, al largo del mare Tabarlyd’Irlanda. Quella di Eric Tabarly in Francia è una vera e propria figura di culto, i cui libri – editi in Italia da Ugo Mursia Editore – hanno formato intere generazioni di velisti e appassionato ogni lettore che avesse nel mare il cuore. Tiersen, originario di Brest in Bretagna, già con l’album del 1997, Le Phare, si era lasciato ispirare da quello che da sempre è una delle fonti artistiche più scandagliate da poeti, musicisti e pittori. Alcune delle canzoni di Le Phare finirono poi anche nella colonna sonora de Il favoloso mondo Amèlie, contribuendo al successo del film che ha donato al compositore francese una certa notorietà anche al di fuori della Francia. Tant’è vero che ancora oggi, complice anche la spledida soundtrack firmata per il film Goodbye Lenin, Tiersen viene considerato, o meglio, ricordato dal grande pubblico soprattutto come compositore di colonne sonore. Un tipo di musica da sempre ostracizzata dalla critica musicale e  repentinamente relegata in una sorta di ghetto, per l’erronea valutazione di considerala sempre subordinata alle immagini. Eppure, Tiersen è un musicista dall’incessante attività, autore di album come il già citato Le Phare, L’absente (2001) e Les Retrouvailles (2005) che si pongono come degli splendidi ibridi tra musica colta e musica folk, e, negli episodi non strumentali genuinamente pop, grazie anche all’apporto di gente come Elizabeth Frazer dei Cocteau Twins, Stuart Apples dei Tindersticks, Neil Hannon dei Divine Comedy e Lisa Germano. Tutti nomi dall’incredibile background internazionale che ben testimoniano la stima di cui gode Tiersen tra i suoi colleghi. In questi album ciò che emerge è il grandissimo talento di Tiersen nell’intrecciare splendide melodie non solo con il pianoforte, ma  anche con un’incredibile gamma di strumenti – onde martenot, xylophono, chitarra elettrica ed acustica, clavicembalo, ma anche tastierine Bontempi e macchine da scrivere  – tra i quali sicuramente spicca per intensità l’accordèon, il cui suono Tiersen modula ora in maniera struggente ora in maniera gioiosa, restituendo quasi i colori al mondo.

Per Tabarly, Tiersen, essendo al lavoro anche sul suo nuovo album, ha lavorato quasi esclusivamente con il pianoforte, sebbene in alcune interviste abbia espresso come questo modo di comporre musica gli sia venuto a noia. L’eccezione per Tabarly è dovuta proprio alla possibilità di un’ispirazione che doveva giungere dal mare. E, ascoltando i 15 brani di cui è composto l’album, viene da pensare che Tiersen abbia lavorato non solo nel tentativo di suggerire con le sue note i colori e il movimento delle onde, ma abbia cercato con il suo tocco di sostituirsi ad esse, restituendone quasi l’odore. Come spiegare il mare a chi non lo hai mai visto. Dire il mare. Ciò che potrebbe  sembrare estremamente ambizioso è in realtà svolto nel segno del minimalismo: i suoi piano-solo ancora più che in passato sono infatti debitori non solo della lezione di un maestro mai troppo omaggiato quale Erik Satie ma anche dei sentieri già solcati da Harold Budd. Quella che è la sua cifra stilistica più riconoscibile, ossia l’abilità nel variare di intensità all’interno di uno stesso pezzo agendo perfettamente sulle dinamiche piano/forte, sembra quasi restituire i moti dell’animo di Eric Tabarly, che si fa quasi archetipo di tutti gli uomini di mare, e di tutti quegli uomini che del mare hanno fatto la propria musa. Da qui brani ora languidi e distensivi come La Longe Route e La Corde, ora brani di stampo più romantico (termine da considerare nella sua accezione più autentica) come Naval e Point Mort nei quali è evidente l’influenza di Chopin e Debussy soprattutto. Altre volte ancora, il sentimento è più malinconico e in brani come Yellow – arricchito anche dall’accompagnamento dell’accordèon -, Derniere e Atlantique Nord, lo sguardo sembra  essere proprio quella del vecchio Eric Tabarly al ritorno da una delle sue regate e che alle prime luci del faro sulla costa, volge il viso a metà tra il mare alle sue spalle e la terra che si avvicina, respirando a pieno polmoni, per un istante, la brezza marina.

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